L’Isola sul fiume. Uno sguardo sul mondo con gli occhi dei bambini

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di Franco Di Giangirolamo

Era la fine di maggio quando salivo sullo strano ponte (appresi più tardi che era opera dei prigionieri della prima guerra mondiale) che collegava Treptow Park con l‘isoletta dove avrei vissuto con mia moglie per un anno e mezzo. La fermata del bus davanti alla sede del Comune mi aveva offerto una prima sorpresa: diversi cartelli indicavano i nomi e le relative distanze chilometriche dei paesi e città gemellate  e, in caratteri blu, scorsi la scritta Albinea (provincia di Reggio Emilia). Lo presi per un segno benaugurante, come dire: gira gira sei sempre a casa.Ormai avevo alle spalle gran parte della mia vita: attività pubblica, quasi tutta la rete familiare, gli amici; insomma, si potrebbe dire tutto, tranne la pensione, la valigia che mi trascinavo appresso e mia moglie che mi attendeva. Di segnali beneauguranti ne avevo proprio bisogno ed ero disposto anche ad inventarmeli.

Sentivo l‘animo molto leggero come accade ad ogni cambiamento piuttosto radicale, come mi era capitato quando decisi di andare a vivere in Chile, o come quando avevo avviato progetti di vita diversi, dopo aver preso decisioni drastiche e senza ritorno. La vita che animava il Parco e le rive del fiume, che potevo ammirare dall‘alto della gobba del ponte, contribuiva a rallegrarmi: coppiette sui pedalò (che molti tedeschi si rifiutano di ammettere di aver copiato dalla riviera romagnola), canoisti impegnati a sudare, barche e zattere fantasiose, un paio di ristoranti dai camini fumanti che si preparano per il pranzo, bambini in ogni dove proprio come gli animali acquatici, tante persone che prendevano il sole, insomma….aria  di Rimini nordica, con rispetto parlando. Ricevetti lì i primi rudimenti su un aspetto del modo di vivere che amano i tedeschi, o almeno i berlinesi: appena si intravede un raggio di sole, tutti fuori, in massa, a popolare le numerose e ben curate aree verdi e, soprattutto, le sponde dei fiumi che attraversano la città, e a farle vivere in ogni modo possibile e con ogni tipo di infrastruttura.
L‘isola, il cui nome era, ed è ancora, conteso tra Isola dei Giovani e Isola di Berlin, di piccole dimensioni ma con alberi centenari, accoglieva due edifici dove erano ospitati, separatamente, giovani adolescenti e bambini fino a tre anni e una piccola costruzione, sede di un Centro Giovanile che organizzava iniziative culturali e, soprattutto, in uno spazio loro riservato, feste,concerti, proiezioni cinematografiche con relative mangiate e bevute.
In pratica l‘isola, tutta pedonalizzata e vietata al traffico, era per un terzo inaccessibile agli estranei e per due terzi praticabile al massimo in bicicletta.

Mia moglie aveva fatto un gran lavoro per sistemare al meglio e rendere ospitale, oltre che vivibile, il nostro piccolo appartamento all´interno del Kinderschuetz, e capii subito che adattarmi non sarebbe stato difficile. Mi piaceva, soprattutto, il fatto che il piccolo tavolo da pranzo fosse collocato sotto una finestra che dava sul fiume. Avendo l‘acqua a distanza di meno di 10 metri, mi sarei goduto la vista della vita sul fiume che si sarebbe rivelata tutt‘altro che monotona, sia per il gran traffico che sorregge, sia per le meravigliose albe (quasi sempre rosse) che vi si affacciano.

L‘accoglienza delle educatrici fu coerente col carattere dei berlinesi, e quella dei piccoli (erano sei) più incerta. A parte i piccolissimi, cui basta una coccola per sorridere , i più grandi erano diffidenti e timorosi.
La vita che stavamo avviando era quasi totalmente condizionata dai ritmi di vita dei nostri piccoli e ciò  non solo a causa dei doveri di mia moglie, che aveva funzioni di “mamma” oltre che di educatrice, ma soprattutto perché  i piccoli, di fatto, mi elessero democraticamente nonno putativo, non avendo i loro corrispettivi biologici a portata di mano. Non dovendo occuparmi delle cose fondamentali della loro crescita, di competenza esclusiva del personale dipendente, divenni addetto alle attività  ludiche, alla somministrazione di qualche poppatoio, alle passeggiate  con seguito di carrozzine e a far divertire gli infanti alimentando, o per meglio dire, rovinando la dieta delle numerose specie di volatili che circondavano l´isola, distribuendo loro pane di segale,

Per molti mesi la mia giornata era riempita, oltre che da ruolo di casalingo, da corsi di apprendimento della lingua tedesca e dal rapporto con i piccoli, che si faceva sempre più stretto e impegnativo. Affezionarsi fu, ovviamente, facile e bellissimo ma, una volta apprese le loro storie e compresi più profondamente i loro stati di animo, fu anche un poco doloroso.
La struttura era studiata e organizzata per ospitare bambini che il Giudice Tutelare riteneva di dover togliere ai genitori per un lasso di tempo utile (di norma tre mesi, ma si arrivava anche ad un anno in casi eccezionali e difficili) a trovare soluzioni definitive ai problemi vissuti dai piccoli o nei quali rischiavano di trovarsi coinvolti.

Talvolta arrivavano direttamente dalla struttura ospedaliera dove erano stati partoriti da mamme con tali e tanti problemi da non riuscire ad occuparsi adeguatamente dei loro piccoli, altre volte venivano raccolti letteralmente dalla strada, spesso sporchi e denutriti, altre volte erano sottratti a genitori incapaci, pure amandoli, di allevarli per i più diversi motivi (ritardi mentali, età giovanissima, povertà materiale e non solo, etc.), pochi fortunatamente venivano sottratti a genitori violenti e mi fermo evitando la casistica degli orrori.
Spesso erano portatori di malattie ereditate da genitori dediti alle droghe, oppure frutto della miseria, della sottoalimentazione, di tare ereditarie di vario genere. Un giorno arrivò una bimba appena nata che non aveva neanche la forza di piangere e di gridare quando era affamata: restava per ore in assoluto silenzio e sembrava che dovesse morire da un momento all´altro, senza che avesse attivato nessuna relazione col mondo esterno. Dopo qualche giorno di stimolazione ad alimentarsi e a reagire, arrivò il giorno di festa,  perché cominciò a strillare e capimmo che aveva vinto la più importante battaglia della sua vita: esserci.

Tutti, piccolissimi e grandini, avevano bisogno di tutto, chi più chi meno: di una alimentazione adeguata e regolare, di pulizia, di un luogo confortevole dove mangiare, riposare, giocare, di attenzioni specifiche ai loro problemi, a partire da quelli sanitari, ma, soprattutto, avevano bisogno di ciò che gli era mancato di più: le cure di una famiglia tutta loro.
In queste condizioni, vivendoci insieme e conoscendone le storie, è stato facilissimo per me, che non ero un professionista ma solo un volontario, diventare realmente un nonno putativo, circondato da un affetto sempre crescente che compensava la lontananza dei miei due nipoti, ma anche doloroso  perché un giorno i bambini sarebbero andati via e il vuoto si sarebbe fatto sentire, parzialmente colmato dalla soddisfazione di sapere che li attendeva una prospettiva quasi sempre migliore, a volte anche definitiva.

Dalla nostra camera da letto, che confinava con le loro stanze,  potevamo ascoltare tutti i rumori dei bambini: i pianti, gli incubi, i lamenti, i sogni e, giocoforza, ne vivevamo la vita appieno. Gran parte delle nostre chiacchierate  da coniugi erano occupate dall‘aggiornamento sui problemi dei piccoli e delle loro famiglie e, per quanto ce lo riproponessimo ogni giorno, non potevamo fare a meno di occuparci, anzi, preoccuparci, di tutto e di tutti, dalle normali necessità di abbigliamento, fino al dosaggio adeguato delle coccole quando erano tristi o ammalati.
A mano a mano che passava il tempo crebbe, assieme al legame affettivo con i bimbi, anche la propensione a trasformarsi in “sindacalista dei bambini”, specialmente quando erano maggiormente sofferenti. Era allora che mi venivano in mente idee sbagliate, frutto di semplificazioni eccessive e della ricerca di un capro espiatorio. Me la prendevo con i genitori,  senza tenere conto che essi stessi  erano vittime di contesti sociali e familiari a volte perfino incredibili da immaginare. Oppure  mi impovvisavo riformatore di  un sistema di norme ed istituzioni che a volte rendevano difficili azioni positive e non contrastavano quelle negative (non è che le problematiche di adozione ed affidamento siano in Germania molto diverse da quelle che registriamo in Italia).

Quel periodo è stato molto bello e utile per me, soprattutto sul piano umano. Ho imparato tanto, a contatto diretto con una parte di società border line, osservando dall’interno le sofferenze della parte più debole della società, gli effetti della miseria che piccoli incolpevoli sono chiamati a scontare a caro prezzo, le caratteristiche di un sistema di welfare robusto e la burocrazia prussiana che lo gestisce,  sul burn out prodotto dalla fatica fisica e psichica degli operatori. Molto di più ho appreso dai bambini, osservando, non senza meraviglia, la potenza grandiosa della loro voglia di vivere e di reagire alla loro cattiva sorte, la loro tenace ostinazione nel cercare di costruirsi un loro spazio nella vita e nei cuori di coloro che se ne occupano, di cercare una qualche centralità nelle vite degli altri, la volontà di non arrendersi nonostante la loro soffertissima, benchè breve, vita e la gioia che sono in grado di produrre con niente e di diffondere attorno a loro naturalmente. Mi hanno aiutato a ripensare alle priorità della vita e ai valori essenziali della medesima, e a tante altre cose che non possono che essere trattate con i guanti della festa, che io non posseggo, per cui non vado oltre.

Un anno e mezzo più tardi saremmo stati costretti a lasciare quella che ormai era diventata la nostra isola, per problemi di salute di mia moglie, del tutto incompatibili con quell´impegno lavorativo. Ci trasferimmo in un appartamento nel Bezirk di Friedrichshain-Kreuzberg. Avevamo accarezzato l´idea di affittare un appartamento più grande per chiedere in affidamento due bambine dal futuro molto incerto, ma, essendo troppo anziani, tutto si tradusse in un esercizio per contenere il nostro senso di colpa per non riuscire a fare di più e di meglio per i nostri piccoli.
Un vuoto si produsse nella nostra nuova vita, benché molto più libera e molto meno faticosa. Non si trattava certo solo delle albe rosse che dipingevano lo specchio di acqua del fiume e la penisola di Stralauer o le nostre passeggiate tra gli alberi di Treptow Park lungo il fiume.
Ciò che ci mancò e che ci manca è  il mondo come lo sanno creare solo i bambini; rotolarsi per terra mentre ti saltano addosso,  i giochi nel giardino e le relative maracchelle, lo sguardo che sembra perso dei neonati mentre prendono il latte,  il loro abbraccio tenero quando si sentono confortati da qualche angustia,  la festa delle coccole, la soddisfazione quando dormono  sereni o guariscono da un malanno, la gioia di sentirli pronunciare a fatica il tuo nome, la magia del travestimento da Babbo Natale, l‘addio un poco nostalgico quando se ne vanno verso il migliore futuro che si meritano e cui hanno diritto.

Forse loro avrebbero potuto pretendere qualcosina di meglio come nonno putativo, ma io da loro ho avuto molto di più di quanto avrei potuto desiderare.
Un bacione e, dovunque voi siate, auguri di una vita serena, cari “piccoli dell’isola”.

Berlin, marzo 2017                                                        
 

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