di Flavia Franzoni (Comitato scientifico di IRESS, Istituto regionale per i servizi sociali e sanitari, la formazione e la ricerca applicata)

Le trasformazioni demografiche che caratterizzeranno l’Emilia Romagna e Bologna nei prossimi quindici anni presentate da Gianluigi Bovini propongono alle istituzioni nazionali e locali così come alle forze politiche ed economiche la “inedita, bella, e impegnativa” sfida della longevità. In questo quadro ci si deve perciò anche chiedere se e come la rete di servizi ed interventi faticosamente costruita nella nostra regione per aiutare e proteggere le persone anziane sarà in grado di adeguarsi ai cambiamenti e di far fronte ai crescenti e nuovi loro bisogni.

1.      Un po’ di storia per guardare al futuro: quale assistenza domiciliare?

Per far questo è utile calarsi nel “flusso” della complessiva storia dei nostri servizi, ripercorrendo (anche se in poche righe!) il lungo percorso delle politiche sociali e sanitarie per gli anziani, a partire dagli anni ’70, cioè dagli anni fondativi delle nuove politiche sociali; anche perché molti degli operatori che dovranno cominciare a far fronte alle trasformazioni che ci aspettano a quei tempi erano ancora bambini o non erano ancora nati. Può essere perciò utile che essi si sappiano riagganciare (questo è un auspicio) all’insieme di valori ed obiettivi a cui si ispirarono quelle politiche.

Negli anni ’70 veniva definitivamente dichiarato il superamento delle “istituzioni totali”. La scelta della “deistituzionalizzazione” e della “lotta all’emarginazione” (oggi si preferisce usare la parola “esclusione”) non riguardò tuttavia soltanto i servizi psichiatrici e il superamento dei manicomi, ma tutti i servizi che “separavano” le persone dai propri contesti di vita, dagli istituti per disabili ai ricoveri per anziani. Per questo l’assistenza domiciliare divenne invece il servizio ”simbolo” dei nuovi orientamenti delle politiche sociali e dell’attività dei Comuni.Gli anziani di allora erano più “giovani” degli anziani di oggi, la speranza di vita era più bassa e la loro salute era migliore. Gli “ospizi” accoglievano persone con ancora sufficienti livelli di autonomia che tuttavia non riuscivano a vivere soli nelle proprie case.

L’assistenza domiciliare fu introdotta perciò per evitare il ricovero di una tipologia di utenza  diversa da quella di oggi: anziani soli, che faticavano a svolgere tutte le funzioni necessarie alla loro vita quotidiana e che, se opportunamente sostenuti con aiuti domestici (accompagnati da servizi di lavanderia, pasti a domicilio e segretariato sociale) e con aiuti alla cura della propria persona (nursering), ma anche con servizi infermieristici e riabilitativi, potevano rimanere nella propria casa e mantenere quelle relazioni personali che evitavano l’emarginazione della solitudine. Poche ore giornaliere o settimanali fornivano un aiuto sufficiente ad evitare il ricovero in strutture residenziali. E chi, come me, negli anni ’70 si occupava di politiche sociali, pensava ad un superamento sostanziale delle strutture residenziali per anziani.

L’invecchiamento della popolazione e l’aumento della non auto-sufficienza ha portato invece alla necessità di nuove strutture semiresidenziali e residenziali variamente calibrate rispetto ai problemi sanitari dell’utenza e soprattutto alla piaga dell’alzheimer.Negli anni divenne sempre più difficile individuare le condizioni a cui l’anziano non autosufficiente o parzialmente autosufficiente poteva rimanere nella propria casa, anche nei casi in cui era inserito in una famiglia che se ne prendeva carico. L’assistenza domiciliare, così come era stata organizzata nei primi tempi, non rispondeva infatti più alle molte esigenze degli anziani e delle loro famiglie.

La discrepanza tra il crescere del bisogno e i limiti quantitativi dei servizi (legati anche alle scarse disponibilità di risorse finanziarie pubbliche) hanno indotto le famiglie a ricercare autonomamente la soluzione ai propri problemi, cioè a poter disporre di cura e compagnia per i propri anziani per molte ore al giorno e, spesso, di notte.
Via via è aumentato perciò l’utilizzo dell’aiuto delle così dette “badanti” (si usa il femminile perché si tratta prevalentemente di donne) spesso donne straniere disponibili ad orari di lavoro diurni e notturni e a risiedere, se richiesto, nelle case degli assistiti.

Con qualche ritardo gli Enti Locali hanno preso atto del fenomeno e della necessità di controllarlo, ma anche di sostenerlo. In alcune regioni si sono perciò moltiplicati corsi di formazione per mettere in grado le “badanti” di svolgere compiti rispondenti ai bisogni delle persone anziane, non sempre da esse correttamente compresi sia per problemi di lingua che di tradizioni. Sono stati altresì predisposti ”sportelli” per consentire l’incontro della domanda di lavoro (da parte delle famiglie) e dell’offerta di lavoro e per garantire rapporti corretti tra le parti (da un lato la regolarità dei contratti, dall’altro una sorta di garanzia sulle caratteristiche e la correttezza delle persone disponibili a lavorare).In alcune regioni tali aspetti sono stati regolati da specifiche leggi o direttive che hanno anche definito la figura professionale dell’”assistente familiare”.

Oggi comunque l’assistenza agli anziani che rimangono nelle proprie case richiede sempre più il coinvolgimento della loro famiglia, spesso una famiglia anziana (mogli/mariti o figli/figlie ormai anch’essi anziani). Questi “care giver”, spendono molte ore nella cura del proprio congiunto e ad essi fa capo anche una sorta di coordinamento degli aiuti esterni alla famiglia. Devono saper “mettere insieme” una molteplicità di aiuti sia professionali (dai professionisti della sanità, alle assistenti di base, alle assistenti familiari), sia familiari. Spesso entrano in gioco anche altri soggetti come il volontariato o qualche associazione. Anche i care giver vanno però sostenuti. La regione Emilia-Romagna ha approvato una legge (n.2/2014) per riconoscere e sostenere i care giver familiari come risorsa informale che entra nella rete di protezione della persona nell’ambito del progetto personalizzato.

Il crescente numero degli anziani di età molto elevata completamente allettati e bisognosi di una assistenza sanitaria capace di sostituirsi alle funzioni vitali più semplici (alimentazione, respirazione, etc.) ha determinato anche la crescita degli investimenti in strutture sempre più specializzate (ieri Case protette, oggi Case Residenza Anziani, CRA). Nel settore privato sono proliferate strutture ad alto contenuto sanitario.La nostra regione ha presidiato il tema della non autosufficienza con finanziamenti cospicui già dal 2007, (ogni anno è definito un Fondo regionale per la non-autosufficienza, FRNA) con uno stanziamento di risorse superiore all’analogo fondo nazionale. Esso sostiene l’assistenza domiciliare (anche attraverso gli assegni di cura) e le strutture residenziali e diurne (adeguatamente “accreditate”), ma anche la sperimentazione di nuove collaborazioni che via via le famiglie hanno proposto.

Questa è la rete di servizi ed interventi offerti nella nostra Regione Emilia-Romagna che ha realizzato l’ampia normativa nazionale completandola con molti provvedimenti regionali.A fronte dei dati che ha illustrato il saggio di Gianluigi Bovini, tra quindici anni questa rete di servizi che abbiamo faticosamente costruito e tentato di adattare alle mutanti esigenze degli anziani sarà in grado di ”tenere”?

Per chi come me si occupa di sistema di servizi alla persona non è sufficiente cercare di prevedere le trasformazioni dei modi di vita e delle necessità delle persone anziane ma si è costretti a pronunciare una serie di “dover essere” per la cui realizzazione occorrono scelte politiche sulle quali è più difficile fare previsioni.

2.      Gli anziani del futuro. Sempre più soli?

Come si è detto, la rete di servizi ed interventi sopra descritta si è nel tempo impegnata sempre più ad affrontare i problemi di grave non auto-sufficienza, ma (ed è questa la mia prima osservazione sul futuro) forse si dovranno tornare ad accompagnare le diverse fasi dell’invecchiamento delle persone con sostegni diversificati.

Partendo dall’osservazione dell’oggi, il dato demografico del nostro territorio che più preoccupa è infatti quello relativo alle famiglie unipersonali composte da persone che hanno più di cinquanta anni e che non hanno relazioni parentali nel territorio vicino. Le storie di vita sono diverse: molti non hanno avuto figli (Gianluigi Bovini stima che nell’area metropolitana di Bologna almeno una persona su quattro in età compresa tra i cinquanta e sessantaquattro anni non hanno avuto figli), o hanno figli che vivono in altre città, non si sono sposati o si sono separati, etc. Molti però tra quindici anni o più dovranno fare i conti con la vecchiaia da soli. Conseguentemente, non disponendo di sostegni informali, si rivolgeranno ai servizi per chiedere aiuto molto prima. E forse più di oggi cominceranno a chiedere di poter fruire di occasioni e progetti che li aiutino ad organizzare il proprio tempo al termine dell’esperienza lavorativa, per superare l’isolamento e lo spaesamento che spesso caratterizza questo periodo della vita.

La politica sociale (ampiamente intesa) dovrà continuare a provvedere alla non-auto-sufficienza dei più anziani ma si dovrà preoccupare anche sempre più di accompagnare l’invecchiamento di chi progressivamente ha bisogno di aiuti soprattutto per poter rimanere nella propria casa e superare i problemi della solitudine.

3.     Assistenza domiciliare e nuovi modi di abitare

Per tutto questo credo che una delle sfide proposte dalla crescente longevità riguarderà un “nuovo modo di abitare”. E ciò vale per chi sarà in condizione economiche precarie, così come per chi potrà disporre di redditi adeguati ma avrà bisogno di nuovi modelli organizzativi dell’abitare che lo facciano sentire più sicuro e meno solo.

Per non farci cogliere impreparati come è accaduto riguardo alla inadeguatezza dell’assistenza domiciliare e il conseguente disordinato ricorso alle badanti dobbiamo monitorare alcune esperienze, quantitativamente limitate, proprio per coglierne gli elementi di innovazione da poter ulteriormente sperimentare.Oggi alcune organizzazioni pubbliche e private hanno già da tempo predisposto “appartamenti protetti” collegati alle strutture residenziali, in cui gli anziani possano portare qualche pezzo della propria vita (mobili, quadri, ricordi) e insieme possano disporre di servizi per la propria persona o anche semplicemente di una vigilanza che possa intervenire nelle emergenze.
Tante le iniziative etichettate come “cohousing”, anche se molto diverse tra loro. Il termine, tratto ovviamente da esperienze straniere, fa genericamente riferimento ad un “abitare collaborativo” , ma può rischiare di creare aspettative eccessive perché esse presuppongono modalità organizzative ed esperienze relazionali che richiedono progettazioni articolate e manutenzioni costanti.

Innanzitutto dobbiamo distinguere tra progetti in cui più persone condividono uno stesso appartamento e progetti in cui si condividono soltanto gli spazi comuni di condominio (soluzione adatta soprattutto per le famiglie con bambini) mentre gli appartamenti rimangono di uso personale. Per gli anziani si fa riferimento soprattutto a progetti di condomini di piccoli appartamenti in cui, oltre all’utilizzo di parti comuni per attività di socializzazione, si garantiscono un minimo di cure e di sorveglianza. Simili per certi aspetti agli appartamenti protetti legati ad alcune strutture residenziali.Un recente progetto (ancora in fase di realizzazione) dell’Asp Città di Bologna sollecita a riflessioni interessanti. Nel complesso di Santa Marta, collocato al centro della città, che in anni passati ospitò una casa protetta, saranno realizzati venti appartamenti da affittare ad anziani o a persone vicinie all’età anziana (auto-sufficienti, parzialmente o non autosufficienti). Il complesso sarà dotato di una piccola palestra, un piccolo centro benessere e un centro per i servizi di assistenza ‘leggera’ (sul modello sperimentato da Asp negli appartamenti protetti già esistenti) e sarà posto all’interno di un Centro Polifunzionale (ambulatori medico/specialistici, palestre, locali per associazioni di volontariato etc.).

Per comprendere le motivazioni che hanno portato alla scelta del progetto bisogna ricordare che Asp dispone di un patrimonio proprio (la cui destinazione fu indicata dai benefattori/fondatori dell’Opera Pia da cui Asp proviene) che può mettere a reddito per ricavare le risorse da impiegare nelle attività di assistenza. Nel progetto Santa Marta si utilizza il capitale immobiliare valorizzandolo e creando un po’ di rendita. Gli appartamenti di Santa Marta potrebbero perciò essere offerti al mercato con prezzi “adatti” per una fascia di anziani non poveri in grado di far fronte all’affitto. È vero che il progetto risponde ai bisogni di una classe abbastanza abbiente e questo è stato il motivo di alcune critiche alle scelte di Asp. Ma si può anche osservare che si dovrebbe trattare di casi che, se non aiutati, possono peggiorare la loro condizione, finendo poi per rivolgersi precocemente ad altri punti del sistema di protezione sociale (a servizi sanitari o socio- sanitari per non-autosufficienti). Un intervento, quindi, che si configura come preventivo, che rallenta i processi di mancanza di autonomia e di non autosufficienza, allontanando il momento in cui, a fronte di una sopravvenuta situazione di non autosufficienza conclamata, saranno chiamate in campo risorse pubbliche ingenti.

In sostanza ASP ha la possibilità di soddisfare i bisogni di una tipologia di target non prioritaria per la programmazione pubblica; ma per fare questo combina insieme la duplice finalità di mettere a rendita il capitale e rispondere ai nuovi bisogni che emergono sperimentando un nuovo modello organizzativo e nuove modalità di intervento che potranno essere riprodotte in altre situazioni. Un esempio che consente di considerare sia la parte di popolazione anziana che ha diritto a prestazioni garantite dal pubblico sia l’insieme di tutti gli anziani che hanno bisogno di trovare una ambiente “a misura” dei loro problemi.Proporre nuove abitazioni, secondo modelli sperimentati soprattutto all’estero, è tuttavia sempre problematico, perché gli anziani dei nostri territori, soprattutto se, come spesso accade, dispongono di una casa in proprietà, hanno resistenze culturali ed affettive ad abbandonarla. La maggioranza dei bolognesi anziani possiede la propria abitazione e cerca di rimanerci il più possibile, soprattutto se ha le risorse economiche per potersi permettere un’assistenza privata domiciliare.

Per continuare la rassegna degli esempi ricordo la proposta di Auser ”Abitare solidale”, un progetto pensato non solo per gli anziani; l’obiettivo è far incrociare chi ha una camera da letto in più da mettere a disposizione (e qualche bisogno di compagnia o di sostegno economico) con chi ha bisogno di un alloggio temporaneo per un momento di necessità. L’ospitalità viene ripagata condividendo la spesa per le utenze, svolgendo qualche lavoro di casa, garantendo una presenza notturna che dà sicurezza, etc.. Un progetto che richiede solidarietà e reciprocità. Condividere gli spazi domestici per reciproco aiuto non è tuttavia sempre facile per una persona anziana. Il progetto deve perciò essere accompagnato e mediato da organizzazioni ed operatori che fluidifichino le relazioni necessarie per realizzarlo.

Ma abitare vuol dire anche poter uscire facilmente di casa e ospitare i propri amici, spesso anch’essi anziani. Questo è stato l’obiettivo della benemerita campagna di Auser che ha denunciato come nella nostra regione ci fossero più di quaranta mila anziani che avevano difficoltà ad uscire di casa (nelle case popolari), perché abitavano in stabili di quattro o più piani senza ascensore. Una denuncia che ha indotto la Regione Emilia-Romagna a finanziare (con 2 milioni di euro all’anno per due anni) l’installazione di ascensori negli edifici di edilizia pubblica segnalati. In generale, la sfida futura che l’ERP (Edilizia Residenziale Pubblica) si è assunta è proprio quella di saper creare anche condomini o appartamenti “a misura di anziani”.

Anche l’assistenza domiciliare ha cercato di innovarsi, innanzitutto integrandosi in progetti personalizzati con tutti gli altri attori che aiutano l’anziano e in particolare valorizzando i servizi sanitari. Ma i Comuni si sono anche proposti di razionalizzare il servizio attraverso piccole sperimentazioni soprattutto in zone della città e in condomini, per lo più di edilizia popolare, dove sono presenti molti anziani bisognosi di aiuto. Alcuni comuni hanno sperimentato una sorta di assistenza domiciliare condominiale, in cui un operatore del servizio territoriale segue anziani di uno stesso condominio, ciascuno per poche ore, diventando così referente della loro quotidianità proprio garantendo una presenza vicina per tutta la giornata. Rimanendo nello stesso condominio per lunghe ore gli operatori costituiscono una presenza rassicurante e collaborano a creare legami tra le diverse famiglie che assistono In altri casi si è tentata la più semplice via della “badante di condominio”, una sola badante per più famiglie, parcellizzando il contratto domestico di colf. Sono le prime tracce di una riorganizzazione del sistema della assistenza che non potranno che svilupparsi in futuro.

Un altro aspetto in evoluzione accelerata è quello dell’utilizzo delle tecnologie nel lavoro di cura. L’assistenza domiciliare e in generale la qualità della vita possono essere supportate anche dalla tecnologia. Soluzioni tecnologiche saranno sempre più in grado di favorire la vita autonoma dell’anziano (tra quindici anni saranno anziani persone con molta più confidenza con le tecnologie informatiche e le reti) attraverso il collegamento con il suo care giver e con i servizi (tele-assistenza tele-soccorso, tele-medicina). Un settore di cui si stanno occupando molte imprese che propongono al mercato prodotti nuovi (tanti i prodotti di ausilio recentemente presentati a Bologna ad Expo- sanità) che dovrebbero sia aiutare a monitorare a distanza l’ambiente domestico, sia facilitare le relazioni con amici ed operatori, sia “portare a domicilio” indagini diagnostiche (tecnologie utilizzabili anche nelle strutture residenziali per analoghe funzioni) . Una sfida futura sarà dunque quella di valutare correttamente questa nuova offerta di beni e servizi e attivare collaborazioni tra l’organizzazione dei servizi alla persona e i produttori per predisporre ausili veramente utili ed efficienti.

In sintesi, è sul collegamento tra “abitare” e “cura” che deve avviarsi una sperimentazione che possa consentire di attivare diverse tipologie di proposte perché le esigenze degli anziani saranno molto diverse tra loro.Analoga rivisitazione richiederanno anche le strutture residenziali o diurne: anch’esse dovranno rispondere a bisogni diversificati fino all’accompagnamento alla fine di persone che rimangono per tempi lunghissimi senza coscienza e sostenute da cure sanitarie. La tendenza potrebbe essere quella della specializzazione e di una maggior definizione dei target di ciascuna struttura, con il rischio tuttavia dell’accelerazione della medicalizzazione delle strutture e forse di un po’ di accanimento terapeutico.

4.      Le relazioni dell’anziano in una comunità competente

Ma la vita quotidiana ha bisogno anche di altro. Intorno a queste case (così come alle strutture residenziali) e a queste persone spesso sole dovrà essere attivata una comunità che sappia essere di supporto ed aiuto, una comunità “competente”.

Puoi aiutare l’anziano nella cura della sua persona con un po’ di assistenza domiciliare, consentirgli di vivere in una casa senza barriere architettoniche ma se l’anziano non potrà contare anche su buone relazioni gli interventi citati saranno inefficaci. Se non ci sono polisportive che li coinvolgono in programmi adattati alle loro possibilità, un volontariato parrocchiale che è disposto a mettere a disposizione qualche ora per dare sollievo alla famiglia o che offre all’anziano la possibilità di partecipare ad attività di tempo libero, se non c’è una “università per anziani” che offre occasioni ad anziani che sempre più hanno maturato esigenze culturali, ma anche se non ci sono i vecchi centri anziani che offrono l’occasione di una partita a carte, se non ci sono panchine sotto casa per potersi sedere a scambiare quattro chiacchiere con il vicino anche l’assistenza domiciliare sarà inefficace. Se guardiamo al futuro dovremo dunque anche ritornare a pensare a tutto questo. Ad esempio la città deve esser costruita anche a misura di anziano, perché la forma della città, dall’arredo urbano ai luoghi di incontro come le piazze, condiziona lo sviluppo di una comunità.Il Comune di Bologna ha attivato insieme ad Iress un complesso progetto di formazione laboratoriale per sostenere gli operatori e i soggetti del non profit che si stanno impegnando nel “lavoro di comunità” e in iniziative di “sviluppo di comunità”. Ecco ciò consiste proprio nel promuovere e far manutenzione dei legami comunitari (con il vicinato, con i membri di una stessa associazione) vitali per gli anziani; il che vuol dire anche sostenere le associazioni e le organizzazioni che riescono ad offrire le occasioni di incontro.

5 I servizi per anziani come motore di sviluppo

Il mondo degli anziani genera dunque una domanda di servizi e aiuti che sollecita il volontariato, ma anche lo sviluppo di nuove professioni. I servizi di aiuto agli anziani, sia che siano offerti dal pubblico che debbano essere acquistati dal privato, possono diventare fonte di occupazione per le nuove generazioni. E qui subentra la necessità di riconoscere la grande dignità delle professioni, che in essi si impegnano. Ricordo negli anni ’70 l’immagine delle prime assistenti domiciliari (che pure avevano titoli di studio di livello basso) che si recavano nelle case degli anziani distribuite nella campagna con l’auto contrassegnata dallo stemma del comune a cui il paese riconosceva competenza e un ruolo sociale; e quando le si incontrava al bar sulla piazza si chiacchierava sull’andamento dell’epidemia di influenza piuttosto che di alcuni aspetti del servizio che si avrebbe voluto sempre migliore. L’assistenza domiciliare era l’occhio attento del Comune e i cittadini guardavano a loro con grande rispetto. Una relazione che si è persa anche a causa della progressiva (e inevitabile) esternalizzazione dei servizi attraverso le successive gare d’appalto, che ha fatto perdere agli operatori il senso dell’appartenenza ad un progetto collettivo. Un senso di appartenenza che tuttavia potrebbe essere recuperato attraverso interventi formativi e rapporti pubblico-privato basati sulla co-progettazione.

Oggi devono poi essere messi in campo professionisti diversi, a cui poter riconoscere competenze e ruoli. Pensiamo all’articolazione delle professioni sanitarie che si occupano di riabilitazione e di prevenzione della perdita di autosufficienza, o che si occupano del sostegno psicologico, così come a tutte quelle professioni che si occupano dell’organizzazione della vita quotidiana compreso il tempo libero.

Tutto ciò va considerato In una visione della società “circolare” che veda come i servizi possano creare occupazione e quindi reddito; e come il reddito possa creare nuova domanda di servizi alla persona. I servizi non devono essere perciò considerati più come una buca in cui si seppelliscono risorse, ma come l’origine del moltiplicarsi di risorse (sto facendo riferimento a quello che gli economisti chiamano moltiplicatore keynesiano). Ecco che allora quanto abbiamo appena descritto non deve soltanto allarmare perché richiede troppe risorse (pubbliche o private che siano), ma può confortare perché capace di portare ad un po’ di fermentazione della società.L’allarme per le risorse richiede tuttavia ben altri provvedimenti che non semplici tagli di bilancio. Il crescente “costo” della non auto-sufficienza non potrà essere affrontato con le risorse del Servizio Sanitario Nazionale. Una via può essere quella di specifici programmi assicurativi integrativi inseriti nei contratti di lavoro. Un’altra strada è quella di “tasse di scopo”, una soluzione non troppo dissimile dalla scelta della Regione Emilia-Romagna di finanziare il FRNA con una integrazione dell’Irpef.

Certo tutto questo richiederebbe il contesto di un sistema socio-economico coerente che consenta una raccolta di risorse attraverso il sistema fiscale adeguato, una disponibilità di reddito degli anziani sufficiente a far fronte alle nuove spese (e se ci proiettiamo oltre i quindici anni verranno al pettine anche i problemi dell’abbassamento del livello delle pensioni), etc… Comporterà anche nuovi meccanismi di finanziamento degli investimenti sociali, soprattutto in strutture, che combineranno risorse pubbliche e private. Meccanismi finanziari (project financing, etc…) che dovranno tuttavia essere monitorati perché gli investimenti siano effettivamente desinati agli obiettivi prioritari.Una sfida grande che probabilmente richiede un riorientamento del sistema economico verso una diversa distribuzione del reddito.

6. Complessità dei bisogni, complessità dei servizi

Non è facile coglier i flussi, a volte carsici, del cambiamento.Per ogni periodo che consideriamo dobbiamo non solo disporre della descrizione della generalità dei problemi, ma dobbiamo saper cogliere gli elementi di discontinuità che cominciano ad apparire per prepararci in tempo ai cambiamenti futuri. E’ questo che ho tentato di fare in questa riflessione che mi ha consentito di segnalare la progressiva articolazione e differenziazione di problemi che gli anziani dovranno affrontare nel futuro e insieme la complessità e diversità delle risposte necessarie per rispondere ai loro bisogni. La rete dei servizi dovrà diventare una sorta di puzzle però in continua evoluzione. Un sistema dunque che richiederà di essere tenuto insieme e monitorato da una programmazione articolata e partecipata, che consenta di utilizzare razionalmente le risorse scarse, incrociando risorse formali e informali; una programmazione inoltre che sappia soprattutto porsi sia in una prospettiva macro, che preveda cioè tutele ed aiuti simili per gli stessi bisogni, ma anche in una prospettiva micro, che sappia valorizzare i singoli micro progetti dei diversi territori (che ad essi si adattano). Credo che la ricomposizione del micro e del macro sia la nuova sfida della politica sociale.

Il Piano Sociale e Sanitario della Regione Emilia-Romagna 2017-2019, anche se si limita ad un periodo di tre anni, si pone in questa prospettiva, prefigurando un welfare comunitario, dinamico e basato su responsabilità diffuse. E pone al centro le politiche per la prevenzione e per la domiciliarità, soprattutto per quel che riguarda la popolazione anziana.

Le schede attuative degli interventi allegate al Piano (che sono sussidi per la predisposizione dei Piani di zona distrettuali) aiutano a perseguire questi obiettivi. Il riassetto dei servizi sanitari (scheda 3) a partire dalla rete ospedaliera prevede la organizzazione di Case della salute, degli ospedali di comunità e del sistema delle cure intermedie tanto importanti anche per gli anziani, perché consentono di realizzare risposte ai bisogni più flessibili e quindi rispondenti ai tanti bisogni diversi. In questo quadro acquisiscono rilevanza interventi come i ricoveri di sollievo e le dimissioni protette.Il Piano evidenzia la necessità di innovare la rete dei servizi socio-sanitari per anziani (scheda 21), sia domiciliari che in strutture, finanziati dal Fondo per la non-autosufficienza (FRNA). Un Fondo, dobbiamo ricordarlo, cha la Regione ha saputo difendere nel corso di una crisi economica che ha invece sottratto risorse per il welfare e che ora dovrebbe essere aumentato.

Nelle schede ritroviamo tante delle proposte illustrate nei paragrafi precedenti. Il Piano infatti definisce la casa come fattore di benessere sociale (scheda 24), riconosce il ruolo dei care-giver anche all’interno dei così detti progetti personalizzati predisposti dai servizi territoriali (scheda 5). In generale promuove azioni per l’invecchiamento attivo e in salute e azioni per la tutela della fragilità degli anziani (scheda 20).

L’innovazione della rete dei servizi richiede anche una rivisitazione delle caratteristiche e della qualità delle residenze da utilizzarsi per i casi non trattabili a domicilio. Se, come abbiamo detto, occorrono forme di residenzialità diverse e flessibili, i recenti episodi di trascuratezza e in alcuni casi di violenza nei confronti degli anziani ospiti sollecitano a monitorare le varie strutture (è ad esempio necessaria una severa regolamentazione delle “case famiglia” costruendo delle “white list”).

A volte i Piani sono considerati “libri dei sogni”, è però importante che presidino in questo modo la cultura sull’invecchiamento e gli obiettivi delle politiche sociali. Il timore infatti è che, a causa della limitatezza delle risorse combinata al crescere dei bisogni legati al progressivo invecchiamento della nostra popolazione, inizi una sorta di scivolamento verso un welfare residuale che non garantisca più i diritti. E qualche sintomo c’è già: la diminuzione del personale nei servizi, una organizzazione del lavoro che “lima “sui tempi delle prestazioni che toglie tempi al confronto e alle con-presenze degli operatori stanno minando in modo subdolo la qualità dei servizi offerti. Se si perdono poi con il tempo i riferimenti valoriali si rischia di accettare servizi che possono tornare  a essere emarginanti, dei “depositi di persone” in cui il costo dell’assistenza è più basso ma la vita diventa più corta

7) E la mia vecchiaia?

È stato chiesto agli estensori di questi contributi di immaginarsi personalmente nel 2032. Quindici anni possono sembrare pochi, nel senso che possono portare a pochi cambiamenti: lo abbiamo osservato ripercorrendo la storia dei servizi. Ma per chi come me ha già più di settanta anni significa proiettarsi (se avrò la fortuna di una vita lunga) nella vecchiaia “vera” e quindi per me cambierà molto. Tutto quello ho descritto potrebbe diventare l’offerta di servizi e interventi di cui aver bisogno e tra i quali dover scegliere, anche con l’aiuto di qualche care giver.

Mi viene allora in mente il titolo di un tema che svolsi al liceo in cui mi chiesero di commentare una frase attribuita a Lonardo (tutto viene attribuito a Leonardo!): “Acquistati cosa che ristori il danno della tua vecchiezza. E se tu intendi la vecchiezza avere per suo cibo la sapienza adoprati in tal modo in gioventù, che a tal vecchiezza non manchi il nutrimento”. La vecchiaia va dunque preparata. Nel testo ho parlato molto di prevenzione, che significa vita sana e aver cura della propria persona, ma che nel procedere degli anni significa anche essere metodici nei controlli sanitari. Vuol dire non perdere le relazioni con tutte le persone che conosci. Vuol dire mantenere i propri interessi culturali. Vuol dire vivere con saggezza ed equilibrio tra le persone che ti sono vicine.

Spero allora di poter continuare a sedermi ai comodi tavolini del bar di Piazza Santo Stefano (non più sui gradini come ho fatto per una vita!) a chiacchierare con le persone che vivono in questo pezzo di città, di rimanere nella mia casa con molti aiuti (e questo è vero soltanto per chi arriva alla vecchiaia con consistenti risorse economiche), ma senza gravare sui figli. Di continuare ad andare a qualche conferenza sui miei vecchi interessi, ancora sulle politiche sociali. Poi potrà accadere di aver bisogno dell’ospedale, di una struttura residenziale. Credo che, se ne avrò le capacità, manovrerò molti dispositivi elettronici per comunicare, per sentirmi protetta, per chiamare aiuto… Questa sarà una caratteristica nuova dei vecchi di doman. iÈ bene però prepararsi a tutto questo, coltivando la “sapienza” indicata dalla titolo del mio tema.

E allora è necessario aiutare tutte le famiglie a prepararsi a queste scelte, aiutare gli anziani ma anche i care giver, attraverso un dialogo tra cittadini e istituzioni, che potremmo anche chiamare “comunicazione pubblica”, a capire quali sono le scelte più rispondenti alle varie e diverse situazioni in cui gli anziani si verranno a trovare. Tutto questo sarà però possibile se ci sarà ancora un Comune, un Asl, uno Stato che presidia i diritti egli anziani.